Seguendo l’invito della pedagogia immaginale, mi sono rivolto a un’opera d’arte simbolica per ampliare lo sguardo sul tema di cosa significhi essere artisti.

L’opera simbolica che ho scelto, per assonanza e affinità con il tema, è l’aria “Vissi d’arte”, tratta dall’opera lirica “Tosca” di Giacomo Puccini. Non aggiungo di proposito informazioni sull’autore, né sulla trama dell’opera, né sul punto in cui l’aria è inserita all’interno del melodramma, e nemmeno sul personaggio che la canta: un’opera simbolica è una presenza viva, che richiede fedeltà nei simboli di cui è portatrice, a costo di sradicarne i molteplici significati dall’epoca, dalle circostanze e persino dall’autore che l’ha composta.

Oltre alla fedeltà, un’opera simbolica richiede estroflessione e assenza di giudizio; è con queste tre indicazioni che ti propongo di ascoltare il brano (cliccando qui accanto ne trovi una esecuzione) e leggere il testo qui sotto, su cui si baserà la mia lettura immaginale.

Quella che segue è la mia restituzione del lavoro di “riguardo” e “attesa paziente” sull’opera simbolica, orientato da queste tre indicazioni (fedeltà all’opera, estroflessione e assenza di giudizio); se vuoi fare anche un lavoro simile su questa (o un’altra) opera simbolica, visita questa pagina (“ecologia dello sguardo”) e/o contattami.

Vissi d’arte, vissi d’amore,
non feci mai male ad anima viva!

Con man furtiva
quante miserie conobbi, aiutai.

Sempre con fe’ sincera,
la mia preghiera
ai santi tabernacoli salì.

Sempre con fe’ sincera
diedi fiori agli altar.

Nell’ora del dolore
perché, perché Signore,
perché me ne rimuneri così?

Diedi gioielli
della Madonna al manto,

e diedi il canto
agli astri, al ciel, che ne ridean più belli.

Nell’ora del dolore,
perché, perché Signore,
(ah,)

perché me ne rimuneri così?

Il personaggio ci dice non di essere un artista ma che “visse d’arte” e subito aggiunge “vissi d’amore”: le due condizioni si eguagliano, e infatti segue una lista di cose che ha fatto, specificando “con man furtiva” e “sempre con fede sincera”.

Ora però è arrivata la resa dei conti e infatti chiede conto del dolore che sta provando: “Perché me ne rimuneri così?”

Questo è un dialogo aperto e senza più remore con il Signore, con il divino: “perché, perché Signore?” Perché il male? A me che ti ho dato tanto, che ho aiutato le miserie che ho incontrato, che ho ornato di fiori gli altari e di gioielli il mantello della Madonna, che ho pregato con fede sincera davanti ai santi tabernacoli e reso più belli e gioiosi gli astri e il cielo con il mio canto.

C’è una verticalità che dalle miserie passando attraverso l’altare, la statua della Madonna, arriva agli astri e al ciel. Ma con il canto, non con la preghiera, che si ferma ai tabernacoli: il canto diventa una preghiera che raggiunge gli astri e i cieli, che ridono più belli

Solo qui scopriamo che il personaggio, che ci ha detto di aver vissuto d’arte (non di essere un artista) è una cantante. Il canto arriva alla fine, come il dono più grande che la protagonista ha dato e chiude il cerchio con il verso iniziale “vissi d’arte”.

Fino a “della Madonna il manto” sembra che tutte le offerte che elenca siano riferite a “vissi d’amore”: l’aspetto umano e profondamente devoto prende il sopravvento sull’aspetto creativo. Solo alla fine, su una spinta religiosa che non può più trattenersi, si innesta il canto, che riprende, specificandolo, il verso iniziale “vissi d’arte” e lo spinge dalla terra dei tabernacoli e dei fiori fino al cielo e agli astri, che ridono più belli (a dispetto di fiori e gioielli e persino dell’aiuto alle miserie).

Vivere d’arte, ci dice l’opera, significa vivere d’amore, darsi fino in fondo in ogni aspetto della vita.

C’è una dimensione umana che solo alla fine si allinea con quella artistica. Perché è necessario darsi nel rapporto con il prossimo, aiutando (e non solo assistendo) le (proprie e altrui) miserie; è necessario darsi nel rapporto con il Divino – ornare di fiori i tabernacoli, pregare con fede sincera. Quando ciò si compie, allora l’opera artistica (il canto) arriva direttamente al Cielo e anche gli astri ne gioiscono: non si diventa artisti per essere astri – stelle che bruciano troppo presto – ma perché gli astri e i cieli ne godano.

Una volta ricongiunti, artista (vissi d’arte) e umano (vissi d’amore) elevano un unico, accorato canto al cielo: “perché il male?” a me che non ho fatto mai male ad anima viva, che ho dato tanto, perché “nell’ora del dolore” “perché, perché Signore” “me ne rimuneri così?”

Nel testo ho evidenziato un’esclamazione (“ah”) riportata nella partitura al termine del brano, prima di “perché me ne rimuneri così?” e non presente la prima volta che la voce cantante fa questo appello al Signore. Mi sembra rilevante perché dal punto di vista musicale questo gemito viene cantato su due delle tre note più alte del brano (dove solitamente i cantanti lirici esibiscono la loro tecnica virtuosistica – parlo di 03:10 del brano qui sopra, se vuoi ascoltarlo). Non mi sembra casuale che quando vissuto d’arte vissuto umano si riuniscono, nella frase finale, il canto assorba persino le parole con cui finora è stato verbalizzato il dolore: in questa “ah” resta la pura voce, condensata in un’esclamazione sufficiente a raccontare il dolore. Le parole smettono di essere necessarie.

Dal punto di vista simbolico e immaginale, la voce cantante ci fa entrare in relazione con il divino attraverso due figure. La prima è il Signore, e a cui la protagonista si rivolge due volte in quello che sembra un dialogo senza risposta, e che per inciso fa rima sia con “amore” che con “dolore”.

La seconda figura, la Madonna si staglia una volta soltanto, ma in un punto centrale dell’opera (sicuramente centrale fra le due invocazioni al Signore), appena prima delle parole sul canto (con cui il suo manto fa rima). Maiuscola e statuaria non solo nell’economia dell’opera, ma anche immagine fisica, concreta, con questo manto che ci fa pensare a una statua, ma anche al manto erboso, alla terra e alla natura. Questa figura di Madre ci rimanda al dolore di cui la voce cantante chiede conto, cercando in Lei un conforto, un’immagine concreta (la statua) in cui rispecchiarsi e su cui proiettare il proprio dolore.

Questa presenza concreta sembra dare speranza alla voce, che con il suo canto riempie il cielo lasciato vuoto dai suoi interrogativi senza risposta. Neppure Giobbe trova risposta alla sua domanda sulla banalità del male ma questo vuoto, questa assenza crea le condizioni perché il canto di sé possa vibrare nell’aria. Forse per questo è disposta a donare ciò che di mondano le è più prezioso (le proprie ricchezze e i gioielli) ponendoli sul Manto della Madonna (per associazione alla Madre e alla Natura). Il canto (singolare) che ha effetto sul cielo e sugli astri è unito dalla rima (“belli”) ai “gioielli” (plurale).

Ho condiviso questa restituzione per rendere, attraverso una pratica immaginale (dell’ecologia dello sguardo), l’immagine di artista immaginale – umano, capace di entrare nel dolore del mondo e di estrarne il proprio canto, pronto a dialogare con le forze del Divino e con gli eventi della vita con fede sincera e a riconoscere la bellezza della Natura come Maestra e Madre.

Le esperienze estetiche e gli strumenti della visione immaginale permettono di sviluppare queste capacità e attitudini.